Smaltito il finale di stagione, si può dire con sicurezza che The Last of Us è riuscita nel difficile compito di soddisfare le aspettative altissime che aveva suscitato. Complici le eccellenti prove attoriali di Bella Ramsey e Pedro Pascal, la serie ha reso pienamente giustizia al videogioco da cui è tratta, pluripremiato campione di vendite che quando è apparso, dieci anni fa, ha cambiato le regole della narrazione videoludica avvicinandola alla complessità del cinema e della letteratura.

Neil Druckman ha saputo costruire un’epopea tragica e feroce che già nell’avventura su console aveva la capacità di lasciare a chi vi partecipava la netta sensazione di aver varcato un punto di non ritorno, rimarcando le potenzialità artistiche del mezzo videoludico. Nessuno dei numerosi epigoni di questo approccio narrativo ai videogiochi – tra i quali pure figurano giochi magnifici come Horizon, Zelda, Bloodborne, i nuovi God of War, il cervellotico Death Stranding e così via – è finora riuscito a produrre un risultato simile in termini di coinvolgimento emotivo e intellettuale, tranne forse The Hollow Knight, un capolavoro indie di struggente malinconia che con The Last of Us condivide, non a caso, il tema della fine del mondo e l’elaborazione del lutto.

Non sorprende dunque la fedeltà quasi maniacale con cui il videogioco è stato tradotto in sceneggiatura dallo stesso Druckman. Le scene salienti ricalcano le cinematiche del gioco in maniera letterale, dando una sensazione di continuità che però si riserva, in molti momenti, di ampliare il già narrato raccogliendo le suggestioni sparse nei mille indizi, note, biglietti, cartoline, manifesti disseminati per i quadri, che nell’avventura in terza persona evocavano il mondo che fu e i drammi di chi lo aveva abitato in un tripudio di world building.

Nella serie ad essere approfonditi sono stati soprattutto gli aspetti legati alle comunità umane, alle reazioni di fronte alla morte e al dolore, e i personaggi minori che hanno acquisito maggiore tridimensionalità. Un esempio emblematico di questo approccio è la terza puntata, forse tra tutte l’innovazione più felice, in cui la storia di Bill e Frank viene riscritta e arricchita dando vita a una piccola e commovente gemma di survivalismo romantico.

Il personaggio di Bill è anche indicativo dell’orientamento generale di The Last of Us, che potremmo definire una variante socialista dell’Apocalisse zombie e non solo per i suoi tratti smaccatamente queer. Le risposte alla catastrofe che mette in scena sono tutti tentativi, per quanto imperfetti, di andare oltre l’individualismo destrorso di The Walking Dead e degli altri capisaldi del genere, pur condividendo con questi un assunto di fondo: il problema del mondo post-apocalittico non sono mai gli zombie – o gli infetti, in questo caso – ma gli uomini.

Il tema della deriva militarista delle misure igieniche contenitive, già evidente nel gioco, è ripreso e ampliato nella serie con l’adozione ripetuta delle categorie di nazismo e fascismo per descrivere il comportamento della Fedra (la Federal Disaster Response Agency, di fatto ciò che resta del governo statunitense) e di altri organismi paragovernativi. Allo stesso modo, i tentativi di opposizione a questa deriva sono connotati come resistenza e comunismo, secondo scelte lessicali politicamente esplicite e gravide di significato. Ma anche la rivoluzione contro l’oppressione non è immune ai dilemmi morali e alle storture, e se nelle Luci troviamo un tentativo di lotta armata all’apparenza ineccepibile, le vicende di Kansas City rappresentano la parodia di quello stesso tentativo, puro Terrore senza ideali.

In generale il rapporto fra immunità e comunità, il fascino del fanatismo religioso, la lotta all’autoritarismo e l’importanza della solidarietà da contrapporre alle spirali di vendetta sono elementi che diventeranno ancora più cruciali in The Last of Us – Parte II. Sempre più sarà evidente che non ci sono buoni per cui tifare, ma solo esseri umani chiamati a compiere scelte tragiche e spesso impossibili, in una difficile geografia emotiva in cui i tradizionali legami familiari e le classiche categorie identitarie sono totalmente destrutturate e ormai svuotate di senso dalla catastrofe. Come fare per restare umani quando la vita stessa, propria e degli altri, sembra valere così poco? Esiste una violenza considerata accettabile per preservare questa vita? Se sì, come riconoscerla? È ancora possibile avere uno scopo, in un mondo al collasso?

La bussola capace di orientare l’azione umana in un orizzonte morale tanto incerto la fornisce Tess, nella serie interpretata da una straordinaria Anna Torv. «Salva chi puoi salvare», intima a Joel, e questa massima diventa il filo rosso che guida la prima stagione e la lega già alle successive, l’unica vera risposta alla constatazione spietata sul destino dell’umanità di fronte al Cordyceps: We lose.

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Immagine di copertina:
un fotogramma da Craig Mazin – Neil Druckmann, The Last of Us, S1E9, Look For The Light, 2023, HBO.