Sono frequenti i momenti in cui, nel bel mezzo delle lezioni dei seminari, Jacques Lacan rompe la quarta parete per speculare su cosa ne sarà dell’eredità futura del suo insegnamento. La più famigerata, nonché provocatoria, di queste allusioni è nel Seminario XVII. È il 13 maggio del 1970, la facoltà di legge di rue Saint-Jacques è chiusa, così la seduta del seminario viene spostata sulle gradinate del Pantheon. Lacan è incalzato dalle domande dei partecipanti. Qual è il rapporto tra angoscia e godimento? E il ruolo del proletario secondo la psicoanalisi? E che dire della dialettica hegeliana? Lacan accontenta l’uditorio, le sue risposte sono taglienti come al solito, ma anche eccezionalmente chiare. La lezione giunge al termine, o almeno così pare. Prima che gli astanti abbandonino la gradinata, infatti, è Lacan a rivolgere loro una domanda: «Che ne farete di ciò che dico? Lo registrerete su un piccolo coso, e poi si faranno delle serate a invito – C’è un nastro di Lacan».1
Per ironia della sorte, come si premura di appuntare Jacques-Alain Miller in calce alla lezione, quel giorno i registratori fecero cilecca. Una volta sbobinati i nastri, molte delle domande rivolte a Lacan sono risultate incomprensibili. Il meccanismo di cattura del sapere, che tenta di comprimere il pensiero di un autore in un pozzo artesiano a cui attingere a piacimento, si è inceppato. La presunta serata a invito di cui si prende gioco Lacan è annullata.
Concedendoci una piccola licenza esegetica, potremmo leggere la provocazione del nastro registrato insieme a un altro tra i passaggi più originali dell’opera di Lacan, e cioè il rimando al paradosso del tempo di Norbert Wiener che troviamo nel Seminario I:
«Wiener suppone due personaggi la cui dimensione temporale vada in senso inverso l’uno per l’altro. […] Se uno invia un messaggio all’altro, per esempio un quadrato, ecco che il personaggio che va in senso contrario vedrà inizialmente il quadrato cancellarsi, prima di vedere il quadrato. È quello che vediamo anche noi. Il sintomo si presenta dapprima a noi come una traccia, che non sarà mai altro che una traccia e che resterà incompresa fino al momento in cui l’analisi sarà andata abbastanza lontano e ne avremo realizzato il senso.» 2
Per il primo personaggio, il quadrato-sintomo è un punto cieco, una traccia priva di senso non integrata nella sua storia personale di soggetto. La posizione fondamentale di fronte al sintomo è qui quella dell’incredulità: questo eccesso osceno non mi appartiene; questa cosa che non significa nulla, e ciononostante mi manovra dall’interno, non ha niente a che vedere con me, è un intruso, una chiazza fastidiosa. Per il secondo personaggio, che viaggia in direzione opposta, il punto cieco del sintomo è costituito da una cancellatura che si disfa a poco a poco, finché la figura non emerge dall’atto stesso della sua cancellazione. Con questa metafora in odor di fantascienza, Lacan ci sta dicendo che l’analisi ci fa pervenire la verità dei nostri sintomi direttamente dal futuro, attraverso una costruzione retroattiva in grado di reintegrare simbolicamente le tracce oscure della soggettività in una storia nuova, che sarà stata scritta dal lavoro dell’analizzante.
Non potremmo, forse, applicare un simile sorpasso temporale, questa retroazione creativa del sintomo, alla stessa eredità di Lacan? E se, proprio come la sfuggente figura del sintomo, anche lo strano oggetto del suo insegnamento (definito spesso “incomprensibile” dallo stesso Lacan),3 sia in realtà un misterioso nastro che viene dal futuro – come se la più affidabile delle registrazioni possibili del sapere lacaniano potesse compiersi solo prescindendo dalla voce di Lacan?
Del resto, quest’ultimo ammoniva di frequente i suoi seguaci esortandoli a non imitarlo, quanto piuttosto a costruire l’eredità del suo insegnamento nel modo più singolare possibile. A confermarci questo paradossale dissidio è proprio lo sviluppo della ricezione del pensiero di Lacan dagli anni Settanta a oggi: finché Lacan è stato in vita, soprattutto in Italia, i suoi principali adepti apparivano spesso come delle copie sbiadite della figura del maestro, se non persino dei ciarlatani ingordi che rendevano la sua psicoanalisi un enigma accessibile solo a pochi iniziati. Per essere effettivamente sdoganata, la psicoanalisi lacaniana ha dovuto attendere l’avvento degli anni Novanta del secolo scorso e, soprattutto, l’alba del secondo millennio.
In un primo tempo (logico e cronologico) abbiamo dunque il Lacan ermetico, il maestro assoluto ostracizzato sia dai filosofi che dagli psicoanalisti, un corpo estraneo privo di cornice che mette in bocca a Freud discorsi privi di senso. In una seconda e invertita direzione, troviamo invece il Lacan metabolizzato dall’esegesi, tradotto in decine di lingue e applicato a una sorprendente quantità di ambiti e discipline diverse. A oltre quarant’anni dalla conclusione del Seminario, quanti nastri abbiamo registrato di Lacan? E quanti di essi meritano il pregio dell’attendibilità?
Hans-Georg Gadamer diceva che non esistono interpretazioni oggettive. La comprensione di un testo, di un’opera o un pensiero è sempre contaminata da fattori storici, culturali e, soprattutto, soggettivi. Ciascuna interpretazione è per definizione una scrittura inedita, una ricostruzione vergine dell’oggetto di partenza. Volendo psicoanalizzare il principio ermeneutico di Gadamer, potremmo dire che la verità dell’interpretazione, Lacan docet, «è vera solo per il suo seguito», per gli effetti che ne scaturiscono, e non per qualche sua caratteristica predeterminata.4 Il rovescio etico della faccenda è presto chiaro: ciascun interprete di Lacan è chiamato a sbrogliare la matassa del suo insegnamento con i propri mezzi, a fare del suo personale nastro registrato un atto di testimonianza che, esattamente alla stregua di un sintomo, non era ma sarà stata ciò che è.
E pochissimi sono riusciti a restituire il senso di una simile impresa come ha fatto negli anni Massimo Recalcati. Recalcati ha dedicato al pensiero di Lacan dozzine di libri, ne ha messo all’opera l’insegnamento aprendo strade che, oltre che cliniche o teoriche, ci portano verso l’estetica, la politica, la religione e la filosofia delle istituzioni. L’aspetto a mio parere più interessante, tuttavia, è che in questa sua produzione torrenziale Recalcati abbia sentito in più occasioni l’esigenza di riaprire il confronto con il suo maestro: con una cadenza pressoché costante, i suoi lavori più personali sono intervallati da monografie che ripropongono un innovativo e diverso modo di dialogare con Lacan, introducendovi di volta in volta spunti, osservazioni o chiavi di lettura inediti.
Il suo Jacques Lacan, pubblicato da Feltrinelli lo scorso ottobre, sintetizza alla perfezione una simile tensione tra il recupero del passato e la sua ripresa in una nuova cornice interpretativa. Ma attenzione. Coloro che si aspettano di trovare nel libro un’introduzione scolastica a Lacan non potranno che rimanerne delusi, e questo già a partire dall’indice: al posto del convenzionale itinerario suddiviso nelle tre grandi periodizzazioni dell’immaginario, del simbolico e del reale, Recalcati innesta il suo ritorno a Lacan attraverso le tappe della storia e del trauma, della psicosi e del linguaggio, dell’Uno con il Due, del transfert e del controtransfert. Altrettanto scontento sarà chi cercherà nel Lacan una lettura semplice, una guida per i viaggiatori incerti che somministri passivamente le risposte al lettore. La prosa serrata e il notevole comparto critico ne fanno un saggio ambizioso, che si può apprezzare o criticare, ma a patto che prima lo si maneggi con cura.
In ballo, infatti, non c’è soltanto la personale dedizione del Recalcati interprete e lettore di Lacan, ma anche un sottile e protratto confronto con la galassia dei diversi lacanismi. La sua vuole e merita di essere considerata a tutti gli effetti una interpretazione contro le (altre) interpretazioni, un atto di rivolta contro il canone che tuttavia sa dimostrarsi persino più rigoroso del canone stesso. È, insomma, un Recalcati che dimette i panni del maestro per tornare a indossare quelli dello studioso. Ecco perché, più che valere come un’ultima asettica parola sul pensiero di un autore, questo libro è da intendersi prima di tutto come un ricominciamento o, meglio ancora, come un ennesimo atto di devozione verso il lascito di Lacan.
Per collocare la sua tesi di fondo, che Recalcati stesso qualifica come una specie di eresia («un’altra direzione […] più ‘ereticamente’ fedele alla lezione di Lacan»),5 può essere utile rivolgerci ancora una volta al paradosso temporale di Wiener. L’esegesi lacaniana appare oggi scissa in due blocchi maggioritari: da un lato, abbiamo l’ortodossia di quello che Jean-Claude Milner definiva il primo classicismo, il paradigma interpretativo che celebra il Lacan del ritorno a Freud, dell’inconscio strutturato come un linguaggio e del primato del simbolico sugli altri due registri;6 dall’altro, vi è la schiera più eterogenea del neo-lacanismo, che predilige il Lacan del godimento, dell’Uno-tutto-solo, della lettera e dell’autismo della pulsione.
A differenza dei personaggi di Wiener però, questi due poli non comunicano tra loro, ma restano centrati sul loro direzionamento univoco. Non riconoscono l’unitarietà del “messaggio” che circola tra le due dimensioni. I primi, i cosiddetti classicisti, alloggiano in un passato assoluto. Il loro “quadrato” è pieno, perfettamente visibile, al punto che, per conservarlo nella sua integrità, essi sono costretti a sottrarlo allo scorrere del tempo. L’esito di questa procedura di vivisezione ci restituisce un Lacan anacronistico, intrappolato nella completezza del simbolico e nel trionfo umanizzante del senso e della parola. La spinta successiva del suo insegnamento è neutralizzata a favore di un sistema di pensiero mansueto, dagli angoli smussati e, per questo, pressoché inoffensivo.
I secondi, i neo-lacaniani, sono invece bloccati dall’altro capo della dimensione. Focalizzandosi su nient’altro che la cancellatura del quadrato (sull’evaporazione del simbolico), essi rischiano di perdere di vista l’orizzonte del messaggio originale, la profonda eppure decisiva continuità che lega l’ultimo Lacan al resto della sua opera. A venire in primo piano non è qui l’allettante sfericità del sistema, ma l’entropia del “disuniverso”,7 una concatenazione frammentaria di concetti e intuizioni che sembra compiacersi del caos in cui gravita e che risulta impossibile da rammendare in una tessitura univoca. Da una parte, spicca il Lacan eternizzato, museificato, imbalsamato in una struttura logico-temporale obsoleta; dall’altra, vi è il Lacan scardinato dal tempo, una mina vagante che fa terra bruciata del suo passato, recente o datato che sia.
Per quanto agli antipodi, entrambe le sponde ricadono nella medesima impasse. Non solo non riconoscono l’una il messaggio dell’altra, ma non capiscono che, alla fine – che il movimento avvenga in una direzione oppure nell’altra – è sempre dello stesso personaggio wieneriano che si tratta.
Recalcati si propone di riallacciare questi due approcci sostenendo che 1) «il registro del Reale e la sua radicale inaggirabilità siano la vera eredità di Lacan» e 2) «che questa eredità non riguardi solo l’ultima fase del suo pensiero, ma sia una vera e propria costante già presente sin dai primi tempi del suo insegnamento».8 Quello di Recalcati è un Lacan che resiste all’auto-fagocitazione, che scommette sui ferri della teoria per preservare la vasta – eppure straordinariamente logica – ricchezza di un pensiero che può trasmettersi nella sua integrità solo a patto di rimanere complesso.
A fare da tramite tra la prima e l’ultima pagina del libro è il «punto di annodamento» del reale, il concetto probabilmente più elusivo che possiamo trovare in Lacan, ma anche il solo in grado di tenere assieme i diversi e altrimenti inconciliabili pezzi del suo insegnamento.
Non a caso, il primo capitolo ci conduce dritti nei paradossi della storicizzazione, il processo attraverso cui il soggetto cerca di venire a patti con la discontinuità traumatica dell’inconscio. Come sottolinea Recalcati, si tratta di un lavoro che non coincide con la semplice restituzione di un passato inerte. La scrittura della storia passa sempre per lo spazio accidentato della contingenza. Ciò che torna a galla dal rimosso non è solo un accadimento di cui non avevamo consapevolezza, uno tra i tanti pezzi da aggiungere al puzzle. Come aveva già notato Freud, l’elaborazione del ricordo implica talvolta un mutamento della cornice stessa attraverso cui concepiamo la (nostra) storia e ci rapportiamo a essa. Ciascuna scrittura particolare porta potenzialmente con sé la necessità di una ri-scrittura globale. Il passato non è mai del tutto uguale a se stesso così come il futuro non è mai un’estraneità così radicale. È il primo volto del reale della storia: esistono dei pezzi che, una volta tratti alla luce del senso – una volta simbolizzati – alterano irrimediabilmente l’impalcatura stessa su cui si sorregge il senso. Il secondo volto del reale giace invece in un resto impossibile da rievocare, in quel passato immemorabile che né la parola né il ricordo possono in alcun modo scalfire. Recalcati ci porta qui a tu per tu con il nucleo incandescente della ripetizione, con quella traccia primordiale che, oltre a opporsi alla storicizzazione, innesca la necessità della storia in quanto tale. Il nostro bisogno di articolare il passato in storia scaturisce dall’incapacità di sopprimere questo resto. La parola da sola non può riassimilare l’eccesso da cui è emersa, non può prevaricare sulla divisione originaria che scinde la coscienza dall’inconscio, il significante dalla Cosa. Eppure, è proprio in questo incastro mancato che la storicizzazione ribadisce la propria natura di processo singolare, di atto in grado di arrestare la monotonia della ripetizione. Pur accertandone i limiti, occorre credere nel simbolico per potersi affacciare sull’abisso del reale. Viceversa, è solo l’esposizione al reale a garantire un effetto di tenuta al simbolico. Che il reale dilaghi cancellando le tracce della parola, o che il simbolico si chiuda in una bolla impermeabile, è la soggettività a venire meno. Recalcati lo spiega bene presentandoci il culmine etico dell’analisi come un oneroso lavoro in cui la “traccia” (l’eccesso non simbolizzabile della soggettività) viene sovrascritta dalla “firma” (l’assunzione di questo resto come stile, marchio singolare della nostra presenza di soggetti).
È un discorso che, dopo aver ridefinito l’evoluzione del registro del reale nel pensiero di Lacan, Recalcati riprende nel terzo capitolo, dove si fa spazio una delle tesi più cruciali del libro. Qui, l’alterità inassimilabile che ostacolava la completa storicizzazione del passato si incarna nell’Altro del rapporto sessuale, nell’impossibilità – più volte ribadita da Lacan – che i due partner sessuali possano fondersi nell’armonia erotica dell’Uno o coesistere nella loro duplicità soggettiva.
La novità introdotta da Recalcati consiste nello spostare il tradizionale punto di prospettiva sull’impossibilità del rapporto. Non è tanto l’Uno, la singolarità chiusa e perversa della soggettività, a imporsi come reale, quanto il puntuale ritorno del Due: se la simmetria del rapporto sessuale non può essere raggiunta, se non esiste complementarità diretta tra i partner sessuali, è altrettanto vero che, per gli stessi motivi, non possiamo in nessun modo sottrarci al rapporto. Se l’Altro è inassimilabile, è anche inaggirabile. Appurare l’impossibilità del rapporto si rovescia nella necessità dell’esposizione all’incontro, nel fatto che il fallimento della consistenza, parafrasando Sartre, ci condanni all’inferno della coesistenza.
A un primo sguardo, il soggetto uscirebbe da questo bilancio doppiamente braccato: prima dall’Uno, incompleto eppure insistente, esiliato nel ciclo narcisistico della pulsione; poi dalla differenza aliena del Due, intrusiva e spaventosa, abitata a sua volta dallo stesso godimento osceno dell’Uno. Tuttavia, ribadisce Recalcati, è soltanto prendendo atto di questa divaricazione strutturale che è possibile reintrodurre il carattere creativo della differenza. Come ricorda Lacan, l’amore si rivolge sempre all’eteros, all’alterità che travalica qualsiasi tentativo di riduzione al medesimo. L’Uno è tenace, ricorsivo, ma anche mortifero: è la via a senso unico della pulsione di morte, del desiderio di putrefazione che ci spinge alla quiete dell’inorganico. Il Due, al contrario, è la via lunga dell’imprevisto, spesso dell’errore e del fiasco, ma anche della traccia del nostro passaggio. Per dirla con una fascinosa espressione di Final Fantasy VII, il Due è la prova che siamo esistiti.
È ciò che Recalcati chiama il «paradosso» di «ogni promessa d’amore»: l’incontro, per sua natura contingente con «l’alterità irraggiungibile dell’Altro» che si sostiene attraverso «un’unione senza unione», un «rapporto» che «si mantiene prossimo al non rapporto».9
Man mano che il libro prosegue, il filo della speculazione si fa sempre più sottile. La tenuta del reale vacilla, eppure l’allaccio tiene. L’epilogo del terzo capitolo sembra risolvere tutte le antinomie convocate da Recalcati nel corso del saggio. Tuttavia, lo schermo non diventa nero. Quando tutto sembra concluso, come un’improvvisa scena post-credit, la posta si alza. Vediamo apparire il quarto capitolo, dedicato alla demolizione di uno dei più seri pregiudizi della clinica lacaniana: «l’idea dell’analista come impassibile, pura funzione logica».10 Buona parte della psicoanalisi criticata da Lacan aveva fatto affidamento sull’importanza del controtransfert, e cioè sull’inclusione dei vissuti soggettivi dell’analista nel corso dell’analisi. Per quest’ultimi, saper padroneggiare il controtransfert equivaleva a un potenziamento dei propri mezzi terapeutici, a una risorsa in più di cui il clinico doveva servirsi nel corso delle sedute. Quale migliore lezione dell’incidente di Freud con Dora, il cui trattamento era finito alla deriva proprio a causa dell’incapacità del padre della psicoanalisi di prendere atto dei suoi stessi pregiudizi di uomo e di padre?
Come è noto però, Lacan ha squalificato senza mezzi termini una simile concezione, arrivando a definirla una vera e propria ideologia. Il controtransfert, semmai, è un “ostacolo” alla regolare conduzione del trattamento, un incidente immaginario, dettato dall’intrusione delle parti non analizzate dell’Io dello psicoanalista. I lacaniani fatti e formati lo sanno bene: essere un bravo analista significa sapere tenere a bada il proprio coinvolgimento con il paziente. Non si tratta di prendere atto dei propri pregiudizi, quanto di disinnescarli alla radice. L’analista deve diventare tutt’uno col setting, sacrificarsi all’atarassia funzionale del metodo. Ecco perché, come ribadisce la Scolastica lacaniana, il clinico è chiamato ad assumere la posizione del morto a bridge: una presenza de-soggettivizzata (o, per usare il più incisivo lessico di Lacan, “cadaverizzata” dal simbolico), che non viene in alcun modo turbata dal lavoro dell’analizzante. Con un conclusivo rovesciamento di prospettiva, Recalcati ci invita invece a ripensare l’analista come qualcuno che «deve pagare con la propria persona per esercitare la sua funzione», e che deve dunque saper integrare nella propria pratica il corretto uso del controtransfert.11 Ciò non vuol dire che quest’ultimo debba rinunciare alla neutralità, a quella libbra di obiettività per cui la psicoanalisi ha dovuto combattere duramente sin dalla sua nascita. Al contrario, non c’è nulla di più obiettivo del riconoscimento che l’analista stesso, a sua volta, sia abitato da un desiderio proprio come lo è l’analizzante. La differenza cruciale che percorre questi due desideri, nondimeno, sta nel fatto che il primo ha a che fare con un desiderio organizzato o, per citare il Lacan del Seminario XI, con il desiderio della differenza assoluta: spronare l’analizzante a rivitalizzare la verità inaudita del proprio desiderio, così da aprirgli l’accesso alla «contingenza illimitata dell’incontro», che nel gergo di Recalcati significa acquisire la capacità di “amare” la differenza inossidabile dell’Altro.12 Cos’è l’amore, dopotutto, si chiede Lacan nel Seminario XXI, se non l’«aver compiuto parte del percorso assieme»?13 Tutto ciò che ci è concesso ereditare, e che i posteri raccoglieranno dopo di noi, sono le tracce semi-cancellate del passaggio dell’Altro sul nostro percorso.
Il nastro viene messo in pausa, in attesa che la registrazione continui.
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Note:
2) J. Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud 1953-1954, Einaudi, Torino 2014, pp. 188-189.
3) Cfr. J. Lacan, Il trionfo della religione, in Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, Einaudi, Torino 2006, p. 109.
4) J. Lacan, Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante 1971, Einaudi, Torino 2010, p. 7.
5) M. Recalcati, Jacques Lacan. Ereditare il reale?, Feltrinelli, Milano 2023, p. 15.
6) Cfr. J.-C. Milner, L’opera chiara. Lacan, la scienza, la filosofia, Orthotes, Napoli-Salerno 2019.
7) J. Lacan, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, cit., p. 6.
8) M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., pp. 15, 16.
9) Ivi, p. 163.
10) Ivi, p. 188.
11) Ivi, p. 191.
12) Ivi, p. 196.
13) J. Lacan, Le Seminaire. Livre XXI. Les non-dupes errent 1973-1974 (inedito), lezione 4.
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Immagine di copertina:
un ritratto di Lacan via Wikimedia Commons.