Ora, questa realtà. Cerco un libro per orientarmi meglio, non si trova ma basta il titolo, None of this is normal. La tempesta Helena è sullo Stato della Florida, guardo un video, girato proprio da quelle parti, di un uomo in un kayak fucsia che pagaia all’interno del suo salotto. Pensavo non si usassero più nomi femminili per denominare gli uragani, che i nomi fossero finiti, che solo gli uragani in qualche modo meritassero un nome umano. Forse la famiglia VanderMeer è stata evacuata. Ho compreso il meme Florida Man. Non è immediato capire se Helena sia stata ricategorizzata come uragano. È stata definita unsurvivable, status che la definisce senza altre possibilità, priva di alternative, ma non deve essere davvero così, deve avere un limitato livello di realtà questa non possibile sopravvivenza a Helena. Deve essere qualcosa di narrativo, di gestibile, mentre il reale sempre più prossimo all’inumano entra nei salotti allagandoli e trascina case e auto insieme a tutte le finzioni.
Sembra si stia formando un occhio sopra il Sunshine State, adesso del tutto coperto da nubi.

Paradiso terrestre

In una qualche contea della Florida si muovono i personaggi di Paradiso terrestre, primo romanzo di Laura Van Den Berg – scrittrice e professoressa di Fiction alla Harvard University – a essere tradotto in italiano (da Marta Olivi) e pubblicato recentemente da una nuova casa editrice, Mercurio. La protagonista del romanzo è senza nome, ma è ragionevole poterla chiamare Laura. È nata in Florida e lì è dove vive la madre, dove vivono i ricordi, le assenze e i motivi per i quali un tempo se ne era andata. Il ritorno dalla sorella, che è rimasta a vivere con la madre nella grande casa di famiglia, deve essere uno degli incidenti della vita accaduti a molti dopo la pandemia. Il marito l’ha seguita in questo ritorno a casa. Lui è uno scrittore e sta scrivendo un libro sui pellegrinaggi nell’Europa medievale, va a correre, cammina per ore e diventa, nel romanzo, l’uomo che corre. Anche Laura, è una scrittrice; all’inizio del romanzo è una ghostwriter, scrive i thriller di un bestsellerista che vive a Miami, uno di quegli scrittori che hanno uno staff di segretarie, editor, aiutanti, in ville con colonne bianche e vicini di Epstein.

«Alle riunioni del Movimento per l’estinzione umana volontaria, ascolto le persone che si raccontano a bassa voce strani sintomi fisici. Ciglia che si diradano, ascelle stranamente asciutte, unghie che si ammorbidiscono e cadono come petali. Non sono cose dolorose – solo bizzarre. Mi sembra di capire che l’unica cosa che accomuna tutte le persone colpite è che si sono ammalate durante la pandemia. La febbre peggiore della mia vita, mi dice una donna in tuta grigia. Indossa guanti da giardinaggio a fiori per nascondere le unghie disintegrate. Mi sembrava che mi stessero cucinando.
Quella notte, nel mio quaderno, tratteggio una trama su una pandemia che cambia i sopravvissuti in modi inenarrabili» (p. 190).

La storia ci racconta del passato di Laura, di quale persona è uscita dall’Istituto e come ha cominciato a scrivere, come è sopravvissuta. La storia di Laura è forse il romanzo che scriverà e ha scritto, in un flusso che appare un cut-up di tutte le realtà narrative su cui lei può volgere lo sguardo. La memoria, il presente, il trauma, le possibilità, il virtuale da un visore che opportunamente si chiama MIND’S EYE. C’è forse una superiorità del flusso degli eventi significanti sulla trama, perché questa normalità della trama a tratti risulta impossibile. Tempeste tropicali si avvicendano, uragani costringono all’attesa, rimodulano il tempo dell’azione e provvedono a sparizioni e altri fantasmi. Animali domestici che non entrano in scena, appaiono, ricoprono il paesaggio. Alberi, insetti ed entità non umane scorrono in segmenti della storia come segni su una caverna illuminati dall’occhio di Laura, come sequenza di movimento. In qualche modo e nella tecnica del romanzo, il trauma della pandemia va svolto, davvero, anche se non c’è tempo e gli eventi nell’era della Catastrofe si accumulano. Un ricordo alla volta, una scelta al giorno e nelle frazioni di giorno: bisogna in qualche modo aspettare che la pioggia finisca. L’evento meteorologico estremo è sviluppato alla DeLillo: è reale, diffuso, in qualche modo inedito nonostante la ripetizione, scuote e produce sparizioni e futuri interrotti. La stagione degli uragani infatti è diventata altro. L’esperienza della catastrofe che l’autrice del romanzo mette in scena ha subito un crollo nel valore acquisibile. Ormai non c’è cadenza, ritmo, intensità, struttura su cui provare a sincronizzare l’esistenza ai tempi, ma i personaggi di Van Den Berg si sono in un qualche modo adattati. Servirebbe un termine particolare, una parola composta, precisa, ovviamente in tedesco perché scritta in un libro di Eva Horn e perché il tedesco è delilliano, ma ad altri e altre trovarla.
La protagonista, nella sua calma e coerenza, sta ricostruendo una sorta di propria narrativa interna e lo fa in modo umanissimo: in continui ritorni, elaborazioni, approssimazioni della memoria chimica. Se l’elaborazione narrativa del cervello e il suo strumento romanzo sono imperfetti, soggetti a revisioni e inferenze dagli altri apparati narrativi, così l’apparente upgrade di MIND’S EYE sembra una prostetica dell’esperienza cosciente: elabora altre vite ma il range delle possibilità di fuga/alternativa è limitato, minimo, meno che liminale. Il visore del romanzo è proprio come una tecnologia dell’Interregno: un gadget non risolutivo, non un fuoco, una soluzione o l’accesso a un qualche paradigma nuovo.
Invece di trovarsi, durante la lettura del romanzo, di fronte a una narratrice inaffidabile nei cambi di piano e versioni di sé, Laura rimane chiarissima, in una prospettiva che è umana e potente, in quella che a tratti appare come luce in una palude costellata di rovine e resti oscuri di un senso non più utile o sostenibile.
La storia di Paradiso terrestre fa scorgere qualcosa che è prossima a una realtà effettiva dei tempi; questo mentre ogni singola scena, accenno, apparizione nel romanzo è, pulsa, weirdness. In ogni momento, anche il più quotidiano o banale c’è una qualche implosione del reale per dirla con Zizek. Laura Van Den Berg scrive un’autofiction antropocenica in cui nulla di quello che succede in questo State of Paradise (titolo originale) è normale. All’interno della vicenda c’è uno schema appena nascosto, forse la ricerca di un ultimo gradino di una scala del dolore, un tentativo di elaborare il trauma, meglio, forse, una fase avanzata di gestione del geotrauma dove il fronte interiore è continuamente invaso anche quando il cielo è sereno.

«Dopo qualche pagina, rallento. Dopo aver descritto il sogno in sé, non so da che parte andare. Cerco su Internet: “Come si inizia un romanzo”, e apprendo che non si dovrebbe mai iniziare un romanzo con un sogno» (p. 88).

Paradiso terrestre è anche, forse soprattutto, un romanzo sulla scrittura e sullo scrivere e narrare. Cosa succede a queste dramatis personae in un impossibile ritorno alla terra e in un’animalità fantasmatica alla meglio? Come si scrive un romanzo nella tempesta? Come si può narrare di un qualche casino circondato da un disastro mentre la Catastrofe è in corso? Con quali tempi, come bloccare un attimo e costruire intorno una scena mentre tutto è letteralmente fluido? Con quale dispositivo quella roba che è il sistema narrativo umano può fare quello che faceva certamente, ha fatto per secoli, e continuare adesso in questo psicopaesaggio, questo insieme percettibile e diffuso passaggio a un diverso regime climatico? Che vicenda si scrive mentre il peggio del cambiamento climatico è, insieme, arrivato e sta arrivando? La weirdness è uno stato in cui una grande dissonanza cognitiva sta per esaurirsi, è quasi risolta, sta per esserlo ma.


Immagine di copertina:
foto di Dylan Sauerwein su Unsplash