«A diciotto anni, dopo due fugaci infatuazioni per la politica e per la religione, mi era già chiaro che fare lo scrittore sarebbe stato per me l’unico modo di scrollarmi di dosso l’apatia, e magari addirittura di combinare qualcosa nella vita. Il problema era che tutti i libri buoni erano già stati scritti» (Jörg Fauser, Materia prima, p. 14).
Arriva per un adolescente, prima o poi, l’infatuazione per gli anni Sessanta e Settanta. In alcuni casi dura poco, come un raffreddore passeggero, in altri casi si prende più tempo, giungendo come una malattia autoimmune a stravolgere gli organismi. Il mercato, dal canto suo, continua a incoraggiare la “retromania” in tutti i modi possibili, ma soltanto gli aspetti più caleidoscopici e circensi dei miti e degli eroi vengono dati in pasto ai consumatori. Per chi è stato giovane negli anni Novanta dello scorso secolo o nei primi decenni del Duemila, quegli anni rappresentano un’isola inaccessibile e oscura, dove l’estasi e l’orrore convivono. Dopotutto, persino chi l’ha attraversata, osservandola da questa distanza, riesce a malapena a comprendere cos’è davvero successo, e chi è stato là si guarda attorno, smarrito, come se mancasse la terra sotto i piedi. Come i poeti romantici del diciannovesimo secolo si smarrivano sonnambuli nei paesaggi crepuscolari del Medioevo o dell’Antica Grecia, anche gli adolescenti hanno la loro Arcadia, quella terra di nessuno da abitare, quando tutto qui sembra ormai andato a farsi fottere. Peccato che, crescendo, si scopre che non c’è mai stata un’Età Dell’Oro e, immagino, non arriverà né oggi, né domani. Ce lo dice Jörg Fauser, scrittore tedesco. Colui che in Materia prima, pubblicato in Germania nel 1984 e finalmente tradotto anche in Italia da Daria Biagi per L’Orma Editore, fa a pezzi gli anni Settanta e lascia a noi raccogliere le briciole.
Coi suoi baffi e i suoi occhiali, la sigaretta, il suo sguardo cinico e malinconico, un incrocio tra un detective hollywoodiano degli anni ’40 e uno spacciatore di fiducia, Fauser non può che ricordare Rainer Werner Fassbinder, un altro tedesco “irregolare” della sua generazione. Non sono poche le cose che hanno in comune. In alcuni momenti di Materia prima sembra quasi di vedere La terza generazione, forse il film più apertamente politico (o antipolitico?) di Fassbinder, quello che nel 1978 inaugura l’inizio di una nuova epoca, mostrandoci tutte le contraddizioni e i patetismi di una rivoluzione che non è mai avvenuta e che, forse, nessuno davvero voleva.
«Erano tutti uguali, comunisti, nazi, genitori, la Chiesa, la critica letteraria, le pagine culturali, gli articoli di fondo, la lotta rivoluzionaria, la RAF, il capitale, la televisione, il Club Voltaire, il pacifismo, la guerriglia, Mao, Trotsky, la Cellula Rossa, l’underground e la GWS. Erano tutti parte della stessa visione, sapevano qual era il modo di fare le cose, avevano il monopolio della consapevolezza, dell’amore, della felicità universale» (p. 158).
Harry Gelb è l’alter ego di Jörg Fauser in questa opera fortemente autobiografica. Harry come il lupo della steppa protagonista del celebre romanzo di Herman Hesse. Ma suona anche come Henry Chinaski, l’alter ego di Charles Bukowski, che era anche amico e compagno di lettere di Fauser. Harry è uno dei tanti vagabondi del Dharma che in quegli anni cercavano il flash, la botta, affamati di estasi, di esperienze di ogni tipo ma, soprattutto, affamati di oppiacei, di eroina, che da lì a poco si sarebbe diffusa ovunque, mietendo in pochi decenni tante vittime quanto quelle di un conflitto armato mondiale. Siamo nel 1968. Sono ancora lontani gli anni dei ragazzi dello zoo di Berlino, ma se ne intravedono già le ombre. Di lì a poco l’utopia del flower power sarebbe stata lentamente distrutta, la sua fine inaugurata un anno dopo con gli omicidi della famiglia Manson e il disastro del festival di Altamont. Harry, come tanti altri, conduce un’esistenza totalmente allo sbando in Turchia, meta di molti hippy all’epoca, nonché centro del mercato della droga. Tra una pera e l’altra, nell’inferno profondo della sua dipendenza, coltiva fantasie letterarie. «Che uno debba combinare qualcosa nella vita mi è stato inculcato abbastanza presto» (p. 14), scrive. Ammira Roth, Fallada, Algren, Dostoevskij, Kerouac, Burroughs, decide presto che per uscire dalla merda in cui si trova bisogna mettersi al lavoro, come hanno fatto i suoi idoli. Lo seguiamo mentre tenta di combattere le crisi di astinenza e acquista la sua prima macchina da scrivere: «La macchina da scrivere era un’arma. Non dovevo dimenticarlo mai. Avevo sempre avuto la sensazione di dovermi difendere dal mondo» (p. 43).
La sensazione di difendersi dal mondo non lascerà mai Harry. Quando, ormai disilluso, decide di ritornare in Europa, eccitato dai moti rivoluzionari giovanili che stanno prendendo piede in Germania, trova in realtà un mondo molto diverso da quello che si immaginava, e le sue aspirazioni letterarie vengono di volta in volta soffocate dal ritorno della droga, di un amore passato, dell’apatia, ma soprattutto, da tutti coloro che hanno in mani le redini della cultura. In ogni angolo si nasconde lo spettro del fallimento e della morte, soprattutto la morte borghese, la noia.
«In questo sistema non vedevo alcuna possibilità di venire a capo di qualcosa facendo quello che si voleva fare. Le cricche al potere si erano ormai spartite definitivamente la torta – gli affari a quelli di destra, la cultura a quelli di sinistra, e chi era fuori dai giochi rimaneva per sempre escluso» (p. 114).
La sua incapacità di prendere posizione e di trovare un senso nelle lotte politiche di cui è testimone lo costringono all’esilio. Harry è tuttavia un ottimo osservatore e il ritratto che fa dei protagonisti e dei personaggi di queste avventure è tanto esilarante e tragicomico quanto quello di cui si può godere nelle migliori pagine di Andrea Pazienza e di Pier Vittorio Tondelli. C’è una comune nella quale si decide di distribuire copie pirata de La funzione dell’orgasmo di Wilhelm Reich, perché è anche l’unico modo per fare un po’ di grana e pagare le bollette. C’è chi sa che è ormai condannato a morte dall’abuso di droghe, chi non sa che farsene della sua vita e decide che in India potrebbe esserci quel che cerca. C’è chi accusa la mancanza di orgasmi da quando ha cominciato a fare sesso comunitario. C’è anche chi attende che tutto il mondo si faccia di LSD. C’è chi attende che tutti, una volta fatti di LSD, decidano di abolire il denaro. C’è anche Dimitri, che è greco e ha combattuto i fascisti e adesso è in esilio, l’unico vero rivoluzionario secondo l’opinione di Harry. Dimitri che ha rischiato la vita per la rivoluzione e che adesso si vede rifiutata la sceneggiatura del suo film dai «papaveri della cultura» (p. 114), gente che non sa cosa siano la fame o la guerra, e che fa finta di sapere cosa sia l’impegno politico. È proprio l’ex trotskista greco a commentare, o meglio, a profetizzare: «Ogni rivoluzionario dovrebbe sapere che quando il sistema ti concede qualcosa devi farlo a pezzi, non piazzartici comodo. Sarebbero questi i rivoluzionari? Sono solo i nuovi socialdemocratici» (p. 123).
Nella lunga odissea di Harry, fatta di sbornie, scopate, case occupate, bandiere nere, scontri con la polizia, non c’è però spazio per l’autocommiserazione. Se c’è qualcosa che il lettore può ammirare in Harry è proprio la sua tenacia, anche quando sembra giunto al fondo. Scrivere è ciò che lo fa rimanere a galla. Scrive recensioni, articoli, intervista persino William Burroughs. Continua a scrivere nonostante il rifiuto degli editori, nonostante scopra a sue spese che le riviste underground in realtà fanno soltanto finta di essere underground, che i figli ribelli sono borghesi tanto quanto i genitori contro i quali si ribellano e che, se la rivoluzione non accade, l’unica cosa che può provare a fare è salvare sé stessi. Che è poi ciò che stanno facendo tutti gli altri. Sta tramontando, infatti, l’epoca dell’impegno politico e delle ideologie e si possono già intravedere gli anni Ottanta, sta accadendo ciò che in Italia hanno definito gli anni del “riflusso”. Accade anche ai personaggi del racconto, tra i quali Gertrud, incontrata in una casa occupata assieme a degli accaniti maoisti, che il protagonista rivede anni dopo. Harry le chiede che ne ha fatto dell’impegno politico, lei risponde: «l’impegno c’è ancora, se vuoi metterla così, solo che è più per me stessa che per i cinesi» (p. 234).
Mentre il mondo che conosceva diviene sempre più irriconoscibile e spietato, Harry cerca di navigare le brutte acque in cui si trova, tra un impiego e l’altro, tra un fallimento e l’altro. Nel frattempo, il suo primo romanzo, a cui lavorava già da anni, viene pubblicato seppur senza il successo che si aspettava. Lontano ormai dai deliri oppiacei e da quelli della rivoluzione, è un uomo solo, lasciato al suo destino. Sa di non appartenere a nessuno e a nessun luogo. Non comprende perché gli altri abbiano sempre bisogno di iscriversi a un partito o di appartenere a un gruppo per fare qualcosa. Da outsider, preferisce starsene con gli outsiders, con quelli che non ce l’hanno fatta. Come il suo amico Bukowski trae dalle loro esperienze, e dalla sua, la materia prima che compone la sua letteratura, quella materia senza la quale chi scrive può al massimo essere uno scribacchino o un pennivendolo ruffiano. Scrivere per Harry è «allenarsi a sopravvivere» (p. 24), l’unico luogo in cui può riuscire a vivere, a respirare. L’unico posto dove si fa sul serio. «La produttività è il punto di forza degli autodidatti. A studiare lettere e pararsi il culo con un posto di lavoro qualsiasi son buoni tutti» (p. 59).
Jörg Fauser morì nel 1987 in circostanze misteriose, il giorno dopo aver compiuto quarantatré anni. Venne investito da un camion mentre attraversava a piedi l’autostrada. C’è chi parla di omicidio, chi di suicidio. C’è chi dice sia stato soltanto un triste incidente causato dall’ennesima sbronza.
Nella sua breve ma intensa esistenza, ha scritto romanzi, poesie, sceneggiature, testi musicali, lasciando un’impronta molto importante nella controcultura tedesca e non solo. Materia prima, che i lettori italiani hanno adesso la possibilità di leggere in questa meravigliosa ed efficace traduzione, è il suo libro più famoso e si spera che l’eco di questa pubblicazione spinga alla riscoperta e alla traduzione di altre sue opere.
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Immagine di copertina:
i Rolling Stones all’Altamont Free Concert, 6 dicembre 1969.