[Pubblichiamo un estratto da Terre piatte. Dove non serve nascondersi di Noreen Masud, Add Editore, 2024, traduzione di Sara Reggiani. Per gentile concessione dell’editore].
Noreen Masud è docente di letteratura del ventesimo secolo all’Università di Bristol e nel 2020 è stata selezionata dall’Arts and Humanities Research Council e dalla BBC per far parte dei New Generation Thinkers.
Masud ha vissuto i primi quindici anni della sua vita a Lahore, in Pakistan, con la famiglia. Il padre, un medico anglofilo, per anni costringe lei, le sorelle e la madre a una vita da recluse, dovendo trascorrere tutto il tempo in casa, dormire nella stessa camera, parlare solo inglese e prendere medicine per non ammalarsi. Le bambine possono uscire solo per andare a scuola, un tragitto che compiono ogni giorno accompagnate in auto. A sedici anni Noreen sceglie di fuggire in Inghilterra con la madre, il padre la ripudia e lei inizia una nuova vita, che però non passa per l’idillio della brughiera inglese, ma per il paesaggio desolato e costiero di Orford Ness nel Suffolk, o quello delle paludi del Cambridgeshire.
In Terre piatte, un ibrido letterario che tesse abilmente memoir, letteratura post-coloniale e geopoetica, Masud racconta della sua infanzia a Lahore, ma soprattutto racconta di un’infanzia trascorsa a immaginare luoghi e territori dietro l’orizzonte disteso della pianura e dei campi che circondavano la città e che lei osservava dal finestrino dell’auto mentre andava a scuola. Racconta di una terra immaginata e desiderata dalla quale era costantemente separata dalle mura di una stanza, di una scuola, di un’automobile. Racconta della fame d’erba, di terra, intercettando precisamente e perfettamente un sentimento, una sensazione molto vivida e presente che ci circonda, quella della separazione da una terra che ci abita, ci costituisce, ma che in molti contesti abbiamo allontanato, rinchiusi come siamo in spazi angusti e a misura d’uomo. Spostata in un altro contesto, Masud continua a ricreare quell’orizzonte piano che l’ha vista crescere e a interrogarlo. Un’interrogazione fondamentale che risuona al lettore e che fa eco di un’epoca a venire:
«Quanto e che cosa sappiamo veramente? Un paesaggio piatto mi dice che non potremo mai davvero conoscere noi stessi, figurarsi altre persone o cose. E per me è un’etica secondo cui vivere. Pensiamo di aver bisogno di empatia, di provare sulla pelle le emozioni di un’altra persona, per relazionarci con lei e prendercene cura, ma non riusciremo mai a penetrare nell’altro, a sentire ciò che sente, a vedere ciò che vede. Tutto ciò che possiamo fare è credere a ciò che le persone ci dicono. Anche, o forse soprattutto, quando non riusciamo a capirle» (pp. 244-245).
[Elisa Veronesi]
UN INIZIO
e che solo il sé narrato può essere intelligibile
e quindi sopravvivere, equivale a dire
che non possiamo sopravvivere con un inconscio.»
Judith Butler, Critica della violenza etica
Ogni mattina a Lahore, mentre andavamo a scuola in macchina, arrivava un punto in cui mi chiudevo nel silenzio e in me stessa. Stipate insieme a me sul sedile posteriore, le mie sorelle continuavano a litigare, a darsi gomitate, ad alzare la voce, per scherno o protesta. Io guardavo fuori dal finestrino, all’erta, mentre passavamo accanto al venditore di tappeti, con la merce stesa sul terrapieno erboso a lato della strada o appesa agli alberi con lunghi chiodi. Il mio momento preferito della giornata stava arrivando, dovevo essere pronta.
Se non mi fossi preparata, se un calcio mi avesse rubato la concentrazione o le mie turbolente sorelle avessero distolto il mio sguardo, mi sarei persa il miracolo. Perché quando arrivavamo alla fine di quella strada angusta, schivando carretti trainati da asini, venditori ambulanti e bambini che correvano, e giravamo l’angolo, in quell’istante il mondo si spalancava. Lahore svaniva. Davanti agli occhi non avevo altro che immensi campi vuoti che si estendevano per chilometri.
Dalla città entravamo in una fiaba e, ogni mattina, nessuno se ne accorgeva tranne me.
Ho dimenticato così tanto dei miei primi anni di vita, ma quei campi sono ancora con me. Che cosa ci faceva tutta quella terra vuota nel bel mezzo di una Lahore affollata, arida e urlante? Possibile che esistesse qualcosa di così profondamente, dolorosamente verde? Lo sentivo sulla pelle e nella gola secca. Nel cortile della scuola l’erba non restava che per pochi giorni. Ogni anno veniva seminata con ottimismo, e i semi generavano ciuffi scuri e polverosi illudendosi che la città avrebbe prima o poi deciso di cambiare clima. Ma sotto il sole cocente e le migliaia di piedini calzati in scarpe nere e lucide, nel giro di pochi giorni il terreno tornava compatto e marrone.
Quei campi no. Nel sole estivo, sotto acquazzoni monsonici e nebbie invernali, e nel corso della primavera di cui percepivo il calore strisciante come il suono di un tamburo lontano e sinistro, loro restavano rigogliosi. Tenevo lo sguardo fisso su quel bel colore alieno mentre gli alberi scorrevano nel finestrino: una lunga fila di tronchi che scandiva il viaggio verso la scuola come il battito di un cuore. I campi scintillanti erano perfettamente piatti. Non c’era nulla ad attraversarli, né colline, né valli, né macchine, niente su cui l’occhio potesse soffermarsi. Bene, pensavo, il mio sguardo non voleva essere distratto. Voleva volare, come un uccello che sfiora l’erba, senza fermarsi. Immaginavo di raccogliere ogni centimetro di terreno e di immagazzinare quella distesa dentro di me per quando ne avessi avuto bisogno. Più tardi, ferma su un lato del cortile della scuola a guardare le mosche accumularsi ai miei piedi, o in classe mentre fissavo con sguardo assente la faccia del mio insegnante, sarei potuta tornare nei campi e vivere lì, in quella fresca quiete, sola.
Tutto nella mia Lahore toglieva il fiato. In cinque condividevamo una camera da letto, in quattro anche il sedile posteriore dell’auto. Perciò quel vuoto immenso per me era inconcepibile: un barlume di qualcosa di divino. Con le mani appoggiate al finestrino («Non toccare il vetro», diceva mia madre dal sedile anteriore. «Lascia una macchia che non va più via») potevo far correre lo sguardo sui campi anche incastrata sul sedile posteriore dell’auto con mia sorellina Nontiscordardimé. Nella mente, potevo correre più veloce di quanto fosse possibile, potevo allungare i muscoli al massimo. In quello spazio non importava come mi muovevo – se correvo a perdifiato o rotolavo o facevo una ruota (che però non sapevo fare) – perché di sicuro non mi sarei scontrata con nulla.
Se su quei campi mi fossi spinta abbastanza lontano, pensavo, oltre il confine dove arrivava il mio sguardo, presto la strada, la macchina e le mie turbolente sorelle sarebbero svanite, e sarei rimasta sola. Io in mezzo a quel piattume, a guardarmi intorno, lentamente, senza nulla da vedere da nessuna parte. Forse allora sarei riuscita a darmi pace.
Sul finire della vita, man mano che il suo appetito diminuiva e lei rimpiccioliva nella poltrona, la mia nonna inglese aveva un ricordo ricorrente.
«Sono con la mia amica Joy», mi disse sorridendo con aria sognante una mattina d’autunno, sei settimane prima di morire. «Ah, Joy. Una persona meravigliosa. Un nome più appropriato non potevano darglielo. Joy!»
«Quanti anni avevi?» Le stavo sistemando cinque pezzettini di liquirizia su un piatto accanto al gomito, sperando di tentarla.
«Forse dieci. Mi sembra ancora di vederla, che cammina su per la collina davanti a me.» Il suo sorriso si era cristallizzato. Mezz’ora dopo non ricordava più di avermelo raccontato e mi descriveva di nuovo la scena: Joy che saliva sulla collina e lei che la vedeva da dietro.
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Immagine di copertina:
Foto di Muhammad Ahmed, Unsplash.