Si dicono, del perturbante, molte cose, da quando Freud dedicò al concetto un celebre saggio. Una delle riflessioni meno conosciute sul perturbante ce la consegna Ludwig Wittgenstein, il quale, in uno dei frammenti che compongono la seconda parte delle Ricerche filosofiche, ci dice che il perturbante è quell’emozione che emerge quando si rompe l’attitudine che presupponiamo quando ci relazioniamo al mondo e ad altri esseri umani. Tale attitudine non ha una dimensione propriamente cognitiva, semmai è una pratica che informa il nostro orizzonte di senso e sulla cui base ci facciamo opinioni e produciamo conoscenza nel mondo. Ad esempio, per Wittgenstein è scorretto dire che noi sappiamo che gli altri esseri umani non sono macchine: semplicemente ci comportiamo come se non lo fossero, è il nostro atteggiamento immediato che ci assicura che qualsiasi dubbio cartesiano sulla realtà dei pensieri degli altri sia privo di senso. Il perturbante emerge esattamente quando qualcosa del mondo mette in crisi questa connessione immediata con il nostro ordinario, quando si spezza l’orizzonte di senso che è presupposto e informa ogni nostra attività nel mondo. Quando una macchina sembra comportarsi come un uomo, o viceversa, è lì che si annida il perturbante: un cortocircuito non previsto, che incrina le nostre assunzioni, la nostra presa sulla realtà. In altre parole, ancora, il perturbante è lo spaesamento che proviamo quando la realtà non si adatta più con facilità ai nostri atteggiamenti che le conferiscono un ordine. Il collasso dell’ordinario ci lascia sgomenti, attoniti, turbati.

Non è una semplificazione suggerire che l’intera produzione manga di Junji Ito, forse il più celebre mangaka horror, sia un tentativo costante, ossessivo, di mettere in immagine questo collasso dell’ordinario, visualizzandolo in forme sempre diverse, sempre estrose e creative. Con delle premesse simili, è chiaro allora che Ito può e deve diventare oggetto privilegiato di riflessione filosofica, e noi appassionati non possiamo che accogliere con grande interesse il nuovo lavoro di Gioele Cima a lui dedicato, Il maestro dell’orrore. Nella mente di Junji Ito (Moscabianca, 2024). Il testo, scorrevole e di veloce lettura, sviluppa un’approfondita analisi dell’opera di Ito, soffermandosi tematicamente sulle sue opere più importanti, da Tomie a Gyo, passando ovviamente per Uzumaki, e sottolineando come, pur nella varietà di temi e situazioni affrontati dal mangaka, nella sua opera sia al lavoro un’idea precisa e coerente di cosa sia e che funzione abbia la letteratura dell’orrore.

Il maestro dell'orrore

È ciò che emerge dalla lettura del primo capitolo, forse il più importante del saggio, in cui Cima delinea la concezione dell’orrore attiva nelle storie del mangaka, ponendola in dialogo con teorizzazioni più conosciute, come quella di King, Lovecraft, e soprattutto Radcliffe. Ribaltando l’interpretazione classica che quest’ultima elabora sul rapporto e la differenza tra orrore e terrore, secondo Cima l’intuizione di fondo di Ito è che la realtà sia, in un senso profondo, terrificante, e non orrorifica. Concettualmente il terrore competerebbe alla materialità della nostra vita, alla piega degli eventi che per definizione non è mai in nostro controllo e può sfuggirci costantemente di mano. Il terrore è l’imponderabile, il caso, l’inimmaginabile che si annida in una realtà impermeabile al nostro occhio. Se il terrore alberga nel profondo di ciò che chiamiamo realtà, la letteratura, allora, in quanto regno della finzione, non può occuparsene in modo diretto e immediato, ma solo obliquamente, in modo indiretto e distorto. Al terrore ci si può solo avvicinare, costruendo contro di esso un meccanismo di pura fantasia che ci permetta di simulare su di esso una forma minima di controllo. Tale meccanismo finzionale corrisponderebbe all’orrore. A ben vedere, seguendo questa interpretazione si potrebbe suggerire che il rapporto logico tra i due termini sia da comprendere all’interno della (non) dialettica del vedere: l’orrore è di fatto il terrore reso visibile tramite il racconto, e quindi tradito nell’atto stesso di renderlo oggetto di sguardo. Proprio in questo tentativo impossibile di rendere visibile l’invisibile, al contempo, troviamo una forma di appagamento psicologico, perché l’orrore ci tutela, ci difende dall’urto con la realtà. I racconti dell’orrore funzionano come meccanismo di difesa contro il terrore del reale, sembra suggerire Ito, e questo ci fornisce, forse, una valida spiegazione del perché continuiamo a leggerli, guardarli, averne bisogno.

Se l’orrore ha questa definizione e questa funzione psicologica, Ito ci si avvicina progressivamente, tramite la sospensione e la distorsione di piccoli dettagli della vita dei suoi protagonisti, che piano piano crescono fino a sospendere del tutto la coerenza della vita ordinaria. Questo è del tutto evidente nella progressione narrativa di Uzumaki, in cui iniziano a manifestarsi bizzarrie localizzate nel villaggio di Kurouzu ma che inesorabilmente si espandono, facendo collassare l’orizzonte di senso dei protagonisti. Queste interferenze dell’ordinario, queste deviazioni grottesche, tramite un processo di cumulazione, rendono di fatto il familiare sempre più estraneo e spaesante: ecco il perturbante freudiano, che non si manifesta, in Ito, solamente nella riproposizione delle sue figure più tipiche (marionette, automi, bambole, uomini di cera, creature dubbiamente definibili), ma nella meccanica stessa della costruzione dell’orrore e della tensione drammatica.

Del resto, come per il perturbante, in Uzumaki la topografia dell’orrore rimanda alla struttura dell’inconscio. L’origine della maledizione che condanna Kurouzu è sottoterra, e si manifesta in superficie tramite una lunghissima serie di veri e propri sintomi che infestano il corpo sociale della comunità: le anomalie mostruose e grottesche che inesorabili prendono controllo della cittadina. Allo stesso tempo, ciò che il capolavoro di Ito mette in scena può essere interpretato secondo la linea suggerita da Eugene Thacker ne Tra le ceneri di questo pianeta, e che Cima riprende, una linea interpretativa che si focalizza più sulla natura extra-umana della minaccia rappresentata dalla maledizione delle spirali. La spirale, come mera entità geometrica che risponde a leggi insondabili, rappresenta la concrezione simbolica di una natura antiumana, profondamente indifferente ai bisogni dell’uomo. È l’antropocentrismo, argomenta Cima, a essere in fondo l’ultima vittima della mostruosità di Uzumaki, che quindi diventa uno degli esempi più riusciti di dare vita e colore alle inquietudini di quel “mondo-senza-di-noi” di cui parla Thacker, che a sua volta assume la connotazione tipica di ciò che Fisher chiama weird, l’assolutamente altro che pone l’uomo di fronte ai limiti delle sue capacità simboliche e cognitive.

Allo stesso tempo, Uzumaki, come ogni classico, si presta a molte altre interpretazioni. Nella post-fazione all’edizione italiana, ad esempio, Yu Sato, scrittore ed ex diplomatico, propone di interpretare l’opera come un’allegoria del capitalismo e dei suoi effetti di realtà sulla vita umana. Questa lettura, non del tutto convincente nella misura in cui sottovaluta la natura totalmente incomprensibile delle spirali (un grado di inintelligibilità che il capitalismo, come struttura sociale, ovviamente non ha) acquisisce valore se la leggiamo affianco a quella di Thacker: il capitalismo come forza antiumana e perturbante che risucchia con i suoi meccanismi implacabili ogni aspetto della vita, umana e non.

Da parte mia, mi permetto di aggiungere un’altra chiave di lettura, fino ad ora poco considerata. Uzumaki è attraversato da una potente riflessione sullo sguardo, che connette implicitamente il capolavoro di Ito a quella riflessione più generale sull’orrore e la visibilità a cui si accennava prima. La spirale invita a essere guardata, spinge il nostro sguardo ad annullarsi nel punto cieco della sua struttura interna. Esemplare è in questo senso la fine di Kirie, giovane e avvenente ragazza desiderata e voluta da tutta la scuola di Kurouzu. Nel procedere del racconto, la piccola cicatrice che porta sulla fronte si espande diventando una spirale che le corrode la fronte, e in una delle tavole più perturbanti del manga, Ito si sofferma a mostrarci come il suo stesso occhio venga risucchiato nella spirale, scomparendo al suo interno. Uzumaki tematizza quindi il collasso dello sguardo, un incubo per la scopofilia moderna, quell’ossessione di guardare ed essere guardati che struttura le angosce e le aspettative sociali del mondo del XXI secolo, e che pone Uzumaki nella stessa costellazione di prodotti orientali dello stesso periodo che riflettono su questo, in particolare film come Ringu, The Eye, Kairo. In tutti questi lavori, l’origine dell’orrore ha a che fare con lo sguardo e la vista: Sadako in Ringu uccide con lo sguardo, la protagonista di The Eye è condannata dalla propria cornea a vedere gli spettri, mentre in Kairo i fantasmi accedono al mondo terreno tramite la visione filtrata dal medium di un computer. La spirale in Uzumaki risucchia lo sguardo, e allo stesso tempo rappresenta un non-oggetto impossibile da vedere e da capire, e che si manifesta come una condanna.

Estremamente centrata è anche la riflessione che Cima dedica al tema del femminile nell’opera di Ito. In fin dei conti, il mangaka è conosciuto soprattutto come l’autore di Tomie, una serie corposa di racconti che pone in scena una variazione del femminile mostruoso, impersonificato da una ragazza immortale che torna in vita costantemente, nonostante venga a più riprese uccisa e fatta a pezzi da personaggi maschili portati sull’orlo della follia. Tomie è forse una delle reincarnazioni più vivide degli incubi che la cultura giapponese, tradizionalista e patriarcale, associa alla donna. Il fatto che Tomie non muoia mai, e ritorni dai morti per tormentare i propri uccisori, portati essi stessi alla follia dalla sua semplice presenza nel mondo, conferisce al personaggio il carattere della necessità propria di quegli archetipi culturali che sempre vengono vissuti come soverchianti, soffocanti e senza via d’uscita. Come rileva Cima, in fondo, ciò che rende Tomie mostruosa è la sua costitutiva libertà, irriducibile al controllo maschile. Come con Uzumaki, anche con Tomie Ito si conforma maggiormente alle caratteristiche della grande stagione del cinema dell’orrore del Sol Levante, popolato da figure lugubri e terrificanti, tutte femminili. Una variazione di Tomie è, ad esempio, il personaggio di Kayako, celeberrimo fantasma vendicativo della serie cinematografica Ju-On (il cui regista, Takashi Shimizu, non a caso, ha anche diretto una trasposizione dell’opera di Ito, Tomie: Rebirth). Anche in questo caso, Kayako, vittima di un femminicidio, torna dai morti per vendicarsi di chiunque entri in contatto con la casa che infesta. La maledizione di Kayako è un destino, implacabile, senza redenzione. In Ju-On come in Tomie, il femminicidio diventa una macchia che struttura la nostra società nel profondo, emblema di una colpa collettiva la cui espiazione coinvolge tutti e non risparmia nessuno, poiché nessuno è davvero innocente.

Il testo di Cima offre delucidazioni anche di specifici racconti, spesso meno conosciuti. Sarebbe ridondante elencarli qui. Al lettore curioso non resta che cimentarsi con l’opera per ulteriore approfondimento. Mi preme chiudere questa breve recensione soffermandomi su un aspetto del libro che ha più a che fare con questioni di metodo che di contenuto. Credo sia infatti importante sottolineare come ne Il maestro dell’orrore la teoria (filosofica o letteraria) che Cima tratteggia per avvicinarsi ai racconti del mangaka non sia qualcosa che l’autore applica preconfezionata, piegando il testo di Ito alle sue esigenze. Al contrario, l’approccio di Cima è quello di far emergere la teoria dalle pieghe stesse delle immagini e degli intrecci dei racconti di Ito, facendo in qualche modo parlare i suoi testi e ascoltando quello che hanno da dire. Se esiste un modo corretto di fare cultural theory e analisi della pop culture, credo sia questo.