Il tempo si è rotto. Il recente saggio di Davide Mazzocco dal titolo Riconquistare il tempo (People, 2024) si apre con un aneddoto in cui l’autore racconta come un orologio fermo in una stanza dove si teneva un incontro con il pubblico si trasforma in un simbolo del rapporto disfunzionale fra la nostra società e il tempo, divenuto ormai mero terreno per l’estrazionismo più esasperato.

Riconquistare il tempo

Il saggio di Mazzocco ha il raro pregio di illustrare in modo esaustivo e coinvolgente i molteplici aspetti dello sfruttamento all’interno della macchina produttiva da cui si è fatta dipendere tutta la nostra vita. È sulla questione del tempo libero opposto al tempo del lavoro che si gioca l’ultima forma di resistenza all’invasione totale delle nostre vite da parte del sistema economico in cui siamo immersi, e da cui pare non ci sia via d’uscita. Il volume si propone di analizzare alcune alternative alle prassi consolidate del neoliberismo, la più perniciosa delle quali consiste nell’aumentare le nostre ore di veglia, così da trarre profitto dalla deprivazione dal sonno: «[i]n maniera inversamente proporzionale alle ore di sonno, aumentano dunque quelle in cui il capitalismo può estrarre valore dal nostro stato di veglia» (p. 17).

«Nel contesto di grande diseguaglianza sociale iniziato con la crisi finanziaria globale del 2007, le cosiddette big tech hanno dimostrato la loro antifragilità capitalizzando al meglio le situazioni di caos» (p. 32). Il concetto di antifragilità è stato introdotto dal filosofo Nassim Nicholas Taleb nel suo saggio Antifragile. Prosperare nel disordine, e si basa sull’assunto che alcuni sistemi resistono agli shock e anzi prosperano nel caos, poiché traggono vantaggio dal cambiamento e dal disordine, migliorando le prestazioni nel processo di adattamento. Questo concetto, che risale al 2012, è tornato oggi a essere più utile che mai, in seguito alle azioni solo apparentemente caotiche del neo-eletto presidente degli Stati Uniti, che a uno sguardo più accurato si dimostrano una perfetta applicazione della teoria di Taleb. Certamente, la richiesta di efficienza durante la crisi del Covid19 ha permesso alle big tech del commercio (Amazon soprattutto) e della conoscenza (in particolare Google), ma anche alle piattaforme di creazione di contenuti – quindi tutti quei social che hanno alleviato la solitudine nella fase drammatica del lock down – di prosperare nel caos. L’idea dell’antifragilità si è rivelata profetica, e risultati più tangibili li vediamo oggi, in diretta, dal punto più nevralgico del pianeta, ovvero lo Studio Ovale della Casa Bianca.

Efficienza significa soprattutto una cosa: tempo. Risparmiarne per dedicarne di più a sé stessi. Ma funziona davvero così? Riprendersi il tempo ha svariate implicazioni, fra le quali anche risparmiarne sulle incombenze quotidiane e sull’accessibilità alle merci. Già a questo livello si verifica una diseguaglianza, poiché l’atto di riprendersi il tempo assume una diversa valenza a seconda del genere e del contesto socio-economico di appartenenza. Il lavoro domestico gratuito svolto dalla componente femminile della società conta cifre impressionanti:

«Secondo una stima di Oxfam, il valore economico del lavoro femminile non retribuito a livello mondiale è di 10,8 trilioni di dollari (10,1 trilioni di euro), una cifra tripla rispetto alle dimensioni dell’industria tecnologica globale […] nelle regioni “in via di sviluppo”, il 75% delle donne è occupato nell’economia informale, quindi senza la possibilità di avere contatti, diritti e protezione sociale. Circa 600 milioni di donne lavorano in maniera insicura e precaria, e molto spesso quello che guadagnano non è sufficiente a farle elevare dallo stato di povertà» (p. 41).

È evidente da questi dati che esiste una ragione economica per cui i governi più reazionari dell’occidente industrializzato, incluso quello italiano e in modo sempre più evidente il nuovo governo statunitense, puntano a inserire come voce di bilancio dello Stato il lavoro femminile gratuito, svolto in ambito domestico oppure legalizzando forme di sfruttamento; e agiscono sulla salute riproduttiva e sessuale, nello sforzo di confinare la componente femminile della società in una zona dove possa percepire un senso di dovere verso queste forme di oppressione. Per realizzare questa agenda politica, il sostegno delle piattaforme basate sulla creazione e condivisione dei contenuti è fondamentale. Gioca un ruolo centrale la trasformazione dei principali social network che, pur avendo svolto funzione di connettori e costruttori di community durante la crisi pandemica, hanno contestualmente subito modifiche sostanziali verso una maggiore visibilità di contenuti basati su una percezione distorta delle lotte femministe come pericolose poiché minano alla base la struttura della società.

«Secondo un rapporto dell’University College di Londra e dell’Università del Kent, gli algoritmi utilizzati dai social media stanno amplificando contenuti misogini estremi che si diffondono dagli schermi degli adolescenti alle aule scolastiche, dove sta avvenendo un processo di normalizzazione. I ricercatori hanno rilevato su Tik Tok un aumento vertiginoso di video incentrati sulla rabbia nei confronti delle donne» (p. 53).

La tecnologia non sembra essere la soluzione ideale per riprendersi il tempo; certamente non la tecnologia di cui disponiamo in maniera eccessiva e che il tempo di fatto ce lo ruba. Peraltro, una tecnologia caratterizzata da una sempre più accentuata obsolescenza. Mazzocco cita il saggio del 1932 di Bernard London, Ending the Depression Through Planned Obsolescence come momento seminale per la prassi dell’obsolescenza programmata, che richiede al consumatore/utente di adattarsi in continuazione a incessanti aggiornamenti. Oggi, sostiene Mazzocco, «la tecnologia esige dalla società una velocità di adattamento intellettivamente, fisicamente, economicamente ed eticamente insostenibile» (p. 83). La costruzione sociale del tempo nell’occidente iper-tecnologico ha come obiettivo «la messa a valore di ogni singolo istante dello stato di veglia» (p. 91), di modo che tutti ci troviamo impegnati in qualche tipo di competizione: nello studio, sul luogo di lavoro, nell’attività di ricerca, nel dedicarsi a qualche attività sportiva al di fuori del circuito agonistico. In generale, la perdita di tempo è fortemente stigmatizzata, la valutazione è ovunque, tutti siamo chiamati a recensire, a condividere, in una parola: a lavorare gratis per il profitto delle big tech.

In un sistema strutturato in questo modo, è davvero possibile riprendersi il tempo?

Citando il saggio di Francesca Coin, Le grandi dimissioni, Mazzocco affronta il problema del burn out causato dalle richieste dei datori di lavoro di estendere il lavoro oltre l’orario, fornendo prestazioni di fatto non retribuite e rendendole anzi obbligatorie nel nome della competizione interna all’azienda e della valutazione delle prestazioni del dipendente. Il quadro disumano che esce sia dal saggio di Coin sia da quello di Mazzocco non può che portare tutti a chiedersi quale sia l’obiettivo di questa accelerazione spaventosa, e a chi porti beneficio.

Una via di uscita da un sistema strutturato in questo modo è offerta da una serie di esperienze indagate nel saggio. Viene raccontato l’evento annuale Time Use Week, ospitato a Barcellona, al quale ogni anno vengono invitati specialisti in politiche del tempo da tutto il mondo. Sono inoltre analizzate le politiche urbane di varie città nel mondo, dove sono state realizzate dimensioni virtuose a livello di quartiere che rendono la vita più sostenibile per i residenti.

Da questa disamina emerge che il problema principale dell’organizzazione sociale contemporanea è costituito dalla metropoli, dove lo stile di vita porta i cittadini a giustificare pratiche che mettono in secondo piano il loro stesso benessere. Ripartire da un ripensamento dei quartieri e da una diversa valorizzazione del tempo vita potrebbe essere la chiave per uscire dalla schiavitù contemporanea generata dall’incessante richiesta di attenzione che tutti subiamo ogni giorno.


Immagine di copertina:
Lee Wan, Proper Time, dal padiglione della Corea alla Biennale di Venezia 2017. Foto di ©artbooms